...il solo sapere che un buon libro sta aspettando alla fine di una lunga giornata rende quella giornata più felice...

Kathleen Norris

A FONDO PAGINA I LINK PER IL DOWNLOAD DEI LIBRI..

Il sito è stato ottimizzato per l'utilizzo del browser CHROME (clicca per il download) e per una risoluzione 1024 x 768

lunedì 10 maggio 2010

Una giornata come le altre: scuola, compiti e studio. Tutta la città spense la luce. Tutti, tranne i ragazzi della Pool Street. Le sorelle Ginny e Nikki, come gli altri sei membri del gruppo si dirigevano verso la Macchia.
La Macchia era il loro posto di ritrovo. Ogni sera i ragazzi si ritrovavano alla Macchia, ma non per bere o fumare di nascosto. Il loro modo migliore per divertirsi era con skate, roller e musica a manetta. Macchia è il nome che diedero tempo prima ai sotterranei di Manhattan. Nessuno oltre a loro conosceva quel magnifico luogo. Si trovava cinquanta metri sotto la metropolitana e grazie al rumore delle rotaie nessuno poteva udirli. Le due ragazze, armate di pattini arrivarono al posto, dove anche gli altri le stavano aspettando. Erano sempre stati amici, sin dai tempi dell’asilo, quando già iniziavano a farsi i loro progetti. La macchia ne è il risultato. Era frutto di due interi anni di lavoro segreto di otto ragazzini: Ginny, Nikky, Rick, Alan, Selene, Lorenz, Davis e Tommy.
Passavano per la stretta scala a chiocciola di metallo per recarsi nei sotterranei. Li, l’enorme pista di pattinaggio delle ragazze faceva da contorno all’area da skate, dove invece stavano i maschi. Con la musica a tutto volume rimbalzavano tutta la notte su quelle piste. Il loro mondo era incompreso dagli adulti, che vedevano solo la scuola, lo studio e i bei voti. Quel mondo finì una notte di ottobre, quando ci fu un tradimento. Era il compleanno di Davis, il più grande del gruppo che quel giorno compiva diciotto anni. Dopo aver festeggiato con il suo gruppo tutta la notte, tornando a casa fu sopraffatto da un uomo, che gli cambiò la vita.
Il ragazzo stava camminando per la via del ritorno, solo con se stesso, pensando che da quel giorno era indipendente dai genitori, finalmente. Era ingarbugliato fra i suoi pensieri quando all’improvviso si sentì afferrare per la gola, sbattere contro il muro disgustando l’odore di ferro che proveniva dal coltello puntatogli a un palmo dal pomo d’Adamo. “Dammi i tuoi soldi!”. Ovviamente Davis se lo aspettava, cos’altro avrebbe mai potuto chiedergli? “Ti ammazzo!” continuava a gridare il tipo, ma Davis taceva, guardandolo fisso negli occhi. L’uomo gli ferì un polso, facendo scendere un rivolo di sangue. Davis taceva. L’uomo passò a colpirlo ai fianchi, causando un dolore terribile al ragazzo, che si accucciò a terra, ansimante.
“Okay, okay, te li do questi benedetti soldi!” disse Davis, cercando di camuffare i crampi lancinanti. Estrasse il portafoglio e gli diede i 50 dollari che gli erano rimasti da quella serata. L’uomo li afferrò sputandoci sopra. Il ragazzo, piuttosto agile, iniziò a correre verso destra, verso la stazione, verso la Macchia. Si sentiva sempre alle spalle l’odore di quello zingaro che non si sarebbe accontentato di una cifra così bassa. Cercò di nascondersi dietro la metro la quale stava attendendo che scendessero o salissero i passeggeri. A quell’ora di notte i passeggeri erano più che altro anziani, o vandali che cercavano riparo dove dormire. Cercò degli altri posti dove nascondersi. Vide una cabina telefonica. Ci si nascose dentro, fingendo di telefonare. Prese in mano la cornetta, osservando che l’uomo si stava dirigendo verso di lui. Fece finta di inserire una moneta, ma quando rialzò lo sguardo, l’uomo non c’era più. Si girò per uscire, trovandoselo davanti. Gli sorrideva sarcastico salutandolo. Davis aprì la porta, colpendolo sullo sterno, per recuperare tempo, e andò verso la tabaccheria, per cercare aiuto. A direzione dell’ufficio c’era proprio il tipo, che gli rovesciò addosso metà delle riviste che erano esposte, scatenando il panico delle persone nei dintorni. Il ragazzo scappava, premendo la mano sul fianco per diminuire il dolore. L’unico posto dove poteva andare a ripararsi era il nascondiglio. Mancava poco per raggiungerlo. Dopo un centinaio di metri scese giù per le scale, poi via nella scorciatoia vicino ai bagni. In quel momento si sentiva stanco, sudato e sfinito. Si infilò tra i muri stretti ed aprì la botola nel pavimento. Era arrivato. Più nessun rumore gli rimbombava nelle orecchie, il pensiero di sicurezza lo invase, calmando la frenesia del suo battito cardiaco.
Ormai non avevo più scampo. Ogni settimana la stessa storia. Clark voleva indietro i suoi fottuti soldi e io non ne avevo abbastanza. Cazzo, li ho usati tutti per comprare l’impianto stereo per la Macchia e adesso gli interessi hanno fatto raddoppiare il debito. Prima o poi lo strozzino mi ucciderà.
La sera dopo, Davis, entrando nel loro paradiso, vide che nessuno sorrideva più, nessuno pattinava, nessuno ballava, nessuno parlava. Silenzio. In quel momento Lorenz, il capo del gruppo, stava camminando verso di lui, con lo sguardo serio e carico d’astio, zoppicando e coprendosi la spalla.
“Senti Davis, vattene. Non ti vogliamo più fra noi, sei un traditore. Ora nessuno più ti rivolgerà la parola, sono tutti contro di te. Non capisco come tu abbia potuto pensare di farci una cosa del genere. Vattene subito!”.
Dopo aver tirato un pugno al bancone, riprese: “Stanotte hanno invaso la Macchia, pezzo di merda. Erano in tanti, davvero tanti e io ero da solo. Mi hanno chiesto di te, volevano i tuoi soldi. Ma perché cazzo non ci hai detto che hai chiesto denaro a Clark per l’impianto? Ora non provare a scusarti, noi non vogliamo pagare i tuoi errori, ci hanno già distrutto tutto. Vedi com'è ridotto questo posto ora? Lo vedi?“
Intanto Davis taceva, come al solito.
“Adesso in tanti sanno del nostro segreto, dovremo raddoppiare la sicurezza, soldi e soldi per rimettere a posto le piste, per ricomprare anche il tuo maledetto impianto. Non saremo mai più al sicuro da quei tipi, e solo per colpa tua!“.
Un altro pugno scosse il bancone.
“Non tornerà mai più come prima! Vattene!”. Con queste ultime parole quasi si poteva toccare l’odio che provava Lorenz, e il dolore del tradimento lo travolse.
Così, Davis, guardò per l’ultima volta il paradiso profanato e con il sapore di acqua salata scolpì nella sua mente gli sguardi dei suoi compagni di vita.
A scuola, il giorno seguente, non alzò minimamente lo sguardo per guardarsi intorno. Sapeva benissimo che i suoi amici l’avevano emarginato e, per evitare altri possibili casini, se ne stava per i cavoli suoi. A pranzo mangiò seduto da solo, in un angolo del tavolo più in fondo della mensa. Mangiando sentiva i sensi di colpa pian piano diminuire per fare spazio a una certezza: dividersi per sempre dai suoi migliori amici.
Dove ne avrebbe trovati altri così? Nei suoi ricordi, il tempo passato con loro era perfetto e tutto ciò gli cerò molta nostalgia. La solitudine e il silenzio facevano male perché in quei momenti la sua mente era assordata da tantissimi pensieri.
Tutto da quel momento in poi lo avrebbe fatto da solo.
Passarono così altri quattro giorni, stando sempre da solo, mangiando da solo, non parlando con nessuno. Il quinto però, al suo solito tavolo arrivò Selene, e si sedette di fianco a lui.
“Perché non ci chiedi scusa?” domandò lei, cercando di riallacciare.
“Non servirebbe a nulla”. Rispose lui.
“Almeno potresti scusarti, secondo me avresti meno rimorsi”.
“Cosa ne sai te?” chiese lui, arrabbiato.
“Ne so più di te, altrimenti non saresti qui” continuò lei.
“E dove dovrei essere scusa?” disse lui.
“Avresti dovuto scusarti, sarebbe stato meglio per tutti”. Finendo il suo discorso, Selene si alzò andandosene. Davis odiava il suo modo di fare, detestava il tono con cui gli parlava, facendolo sembrare l’unico idiota nel mondo, facendo apparire tutto il resto sfocato e lui in primo piano, bastardo e colpevole, anche solo guardandolo con i suoi occhi ramati. Quella fu l’ultima volta che le parlò a scuola. Mancavano pochi mesi alla fine della scuola, alla maturità, all’abbandono della parte migliore della sua vita. Doveva concentrarsi nello studio, certo avrebbe anche potuto scusarsi, ma lui rimaneva dell’idea che avrebbe peggiorato solo le cose, che non sarebbe servito a nulla se non a fargli fare una figura di merda.

Passò gli esami, fu promosso con un ottimo giudizio, trovando successivamente un facile accesso all’università. Si trasferì a pochi chilometri da quella città, trovando un appartamento da condividere con un certo Stewe, che frequentava la sua stessa classe. L’anno dopo mentre lui studiava per passare gli ultimi test d’istituto prima dell’estate, i suoi vecchi amici Nikki, Alan e Lorenz stavano svolgendo gli esami.
Un giorno gli fu dato l’invito, dal suo compagno di stanza, per il concerto di un gruppo di ragazzi che frequentavano la sua ex scuola superiore. Decise che poteva concedersi il piacere di rivedere i suoi vecchi compagni di scuola e così andò alla festa. Si trovava in un quartiere vicino alla scuola, in un locale un po’ imbucato, ma appariscente. Entrò, vedendosi arrivare in faccia un fascio di luce di quelli che, solitamente, mettono in discoteca o alle sagre. C’era una serie di tavolini e in fondo alla sala, il palco dove i ragazzi si stavano preparando. Ne riconobbe subito uno, il batterista, a cui aveva dato ripetizioni di matematica qualche anno prima. Si sedette al bancone, giacché era da solo attendendo l’arrivo del suo coinquilino, Stewe. Gli si avvicinò una ragazza, con un listino in mano, sorridente.
“Posso servirti qualcosa?” gli chiese.
“No grazie, aspetto un amico”. Guardandola negli occhi la riconobbe, e non gli parve vero che fosse veramente lei. Era Selene, quella ragazza che un anno prima l’aveva mandato, in poche parole, a quel paese. Nel suo viso si leggeva molta nostalgia che cercava di soffocare con uno sguardo serio. “Come stai Selene?” chiese il nostro vecchio.
“Tutto bene, il gruppo è sempre il solito.” Era molto scocciata, ma nello stesso tempo, sembrava felice di rivederlo.
“E La Macchia? Che fine ha fatto?...” lei lo interruppe subito “Me lo chiedi così, come se non te ne importasse più niente? Sei rimasto come prima, non sei cresciuto molto. Comunque se vuoi saperlo stai camminando proprio all’interno, della Macchia.”
“Cioè il nostro nascondiglio sarebbe questo? Un bar pubblico?”.
“Nostro? Osi dire ancora nostro?”. Lui cominciò a rattristarsi e a pentirsi di quello che aveva detto.
Possibile che io non faccia mai niente di giusto?
Nel frattempo arrivò Stewe, il quale si accorse subito che Davis stava male. Cominciò a fargli domande ma non ottenne risposte. Stewe entrò al bar, tra il caos della musica, chiedendo ai camerieri se era successo qualcosa. Un tipo in cravatta gli disse che Davis era uscito dopo aver parlato con Selene, e gliela indicò con il braccio. Il ragazzo andò da lei.
“Sei una dei vecchi amici di Davis?” le chiese. Lei annuì. “Avete visto come lo avete ridotto? Se penso a quello che ha fatto, avete avuto ragione ad arrabbiarvi. Ma non mi sembra il caso di tirarla lunga fino a questo punto. Son passati due anni quasi e ancora insistete? Quelli che non sono cresciuti siete voi. Comunque da quel giorno, lui non ha più una vita sociale. Esce solo con me, ogni tanto.”
Lei si sentì in colpa, non ebbe il coraggio di rispondere a Stewe. Era la prima volta che lei non rispondeva a qualcuno. Il suo carattere forte si era placato e si rese conto che forse il ragazzo che aveva di fronte non aveva tutti i torti.
Quest’ultimo uscì dal locale e portò via Davis da quel posto. Stewe, rassicurandolo, gli disse che non doveva più soffrire, era già troppo quello che aveva passato. La mattina dopo, all’alba, sentirono bussare alla porta. Stewe andò ad aprire, trovandosi davanti una ragazza seria. “Davis, c’è qualcuno che vuole vederti”. Davis andò alla porta, mentre l’amico sgusciò via. “Devo parlarti, puoi uscire un attimo?” le chiese lei. Così uscirono in giardino. Nella panchina, le parole di Selene scendevano a dirotto, talvolta interrotte da qualche sussulto. Lei si scusò per le brutte parole dette quella sera, e si scusò ancora di più per tutte quelle volte che non era andata da lui mentre sentiva la sua mancanza, lasciando scorrere tutto e rimanendo impassibile. Si rese conto che le sue scuse non bastavano, si sentiva uno schifo. Tutto a un tratto però, lui le asciugò le lacrime e la baciò. Tutto attorno a loro in quel momento era unico e lei sentì il suo cuore calmarsi a poco a poco, trovando conforto fra le braccia di Davis. Un gesto che la fece tranquillizzare e sentire bene.  
Da quel momento iniziarono a frequentarsi. Lui la portava fuori a cena il sabato sera. Dopo un mese di corteggiamento, Davis le chiese di mettersi insieme a lui, consapevole del fatto che Selene usciva anche con quelli del gruppo, mantenendo il segreto della loro relazione. 
Tutta questa felicità svanì la sera in cui gli amanti furono scoperti dal gruppo. Li sorpresero baciarsi in un parchetto, rimanendo un po’ delusi dal segreto che lei non aveva rivelato. Lorenz ordinò a Selene di andare con loro, convincendola che Davis l’avrebbe ferita prima o poi, ma lei non dava segno di approvazione.
“Non vi pare che la stiamo tirando troppo avanti questa storia? Ha sbagliato, ma adesso basta. E’ arrivato il momento del perdono. Se avrete ancora un briciolo di umanità seguirete le mie parole” disse lei, decisa. “Cosa stai dicendo? Vuoi abbandonarci per lui?” chiese Lorenz, infuriato. “Io la mia risposta l’ho data. Ora vorrei sapere l’opinione degli altri, se ascolteranno la loro anima o la loro mente. Volete che Davis torni con noi?”. Chiese Selene. Gli altri annuirono dopo una breve consultazione.
“Mi sembra di stare all’asilo” disse Lorenz, andando via.
Con la testa bassa camminava verso la parte opposta, voltando le spalle agli altri, ripensando a tutto e a tutti. L’avevano tradito. O lui aveva tradito gli altri? Improvvisamente una moto gli arrivò di fronte, lui non si spostò dal centro della strada, troppo immerso nei suoi pensieri per comandare al cervello di muoversi. Restò fermo illuminato dai fari del veicolo. Non si fece male, no. Successe tutto lentamente, quasi a rallenty. Una spinta impulsiva lo fece cadere, e da terra vide il corpo di Davis steso sull’asfalto pungente di fianco alla moto.
Lorenz corse verso il suo vecchio amico e gli mise un braccio attorno al collo, facendolo alzare. Gli altri intanto, in panico, chiamarono un’ambulanza. Davis sentì il rumore ferrico della barella mentre lo portavano via. Aveva la vista offuscata e non riusciva a riconoscere nessuno, solo delle ombre attorno a lui. Lo accompagnò proprio Lorenz all’ospedale. Nell’ambulanza, gli tenne la mano tutto il tempo. Lo vide pian piano muovere le labbra, per dire qualcosa. Lorenz appoggiò la testa sul petto di Davis, per sentire il suo cuore, per ringraziarlo di quello che aveva fatto, e in quel momento sentiva che forse si sarebbe meritato lui quella barella e quel mezzo stato di coma in cui si trovava il ragazzo. Sarà stata l’atmosfera di compassione, il grigio buio che li circondava. Sarà stata la pioggia, che arrabbiata iniziava a picchiare sulla cappotta dell’ambulanza. O forse sarà stato solo il desiderio di avere quell’amico di nuovo con lui che gli faceva scendere gocce salate dagli occhi, con un amaro sapore di colpa.
Sono uno stupido, dovevo ascoltare i miei compagni, dovevo perdonarlo. L’ho rifiutato troppe volte. E tutto per ottenere cosa? Niente solo dolore. Ho messo in pericolo la sua vita, sono un idiota!   
Arrivarono all’ospedale e per tutto il tempo della visita, Lorenz rimase nel corridoio ad attendere le notizie riguardo allo stato di Davis. Stava per addormentarsi quando arrivò l’infermiera. “Per fortuna la caduta non ha comportato gravi danni. A livello cerebrale non ci sono lesioni, ha solo un taglio superficiale nella fronte. E un braccio da ingessare”. Lorenz si alzò in piedi di colpo, contentissimo per le parole dell’infermiera anche se allo stesso tempo era ancora amareggiato per ciò che aveva fatto. “Posso entrare?” chiese lui. “Ti sta aspettando” rispose l’infermiera. L’amico era disteso nel letto bianco, con un’espressione felice. Gli occhi erano ancora socchiusi, come se avesse perso il senso della vista. “Lorenz…scusa” disse Davis, sforzandosi di pronunciare quelle parole. Lorenz rimase un po’ confuso. “Non devi neanche dirlo” disse avvicinandosi all’amico ferito. Si sedette nel letto, di fianco a lui. Lo vedeva sofferente, ma felice. Aveva la tentazione di abbracciarlo per ringraziarlo ma qualcosa lo frenava. Non si spiegava il perché. Probabilmente era solo felicemente invidioso del suo gesto. “Che ne dici di Heaven?” chiese improvvisamente Davis all’amico. “Che vuoi dire con Paradiso?” disse Lorenz. “Un nuovo nome per La Macchia” rispose Davis. Lorenz rivolse un attimo lo sguardo al soffitto, poi parlò: “Bello, davvero. In effetti, Macchia era un po’ antico”. 

Nessun commento:

Posta un commento